Sotto il cielo di Berlino

Pioggia fitta. Il cielo è come chiunque lo immagina sopra Berlino. Come doveva essere. Scuro. Pesante. Lana inzuppata. Segnali stradali guidano con precisione tedesca, attraverso ampie arterie scorrevoli. Strade dalla musica fluida e cadenzata. Pause ai semafori e colpi di tamburo ad ogni indicazione. Zentrum. Zentrum. Zentrum. Fino a ritrovarsi, stupiti, sotto la Siegessäule, la Colonna della Vittoria, nel cuore del Tiergarten, l'enorme parco cittadino. Nessuno può essere preparato a questo tipo di centro urbano. Solo in una fiaba potrebbe essere così: un bosco di alberi, con dentro una stella di strade e al centro della stella un altissimo obelisco, con sopra un angelo d'oro.

 

Ci si sente spaesati come Alice nel Paese delle Meraviglie. Ogni cosa appare differente, nulla è ovvio, non esistono mezze misure. Fuori da ogni schema di metropoli e dalla banalità. Il parco si estende in tutte le direzioni. Riempie di verde profondo lo spazio. Splende sotto la pioggia l'angelo d'oro, immerso dentro un cielo d'acqua. Le ali enormi sembra che stiano per aprirsi in volo sopra il costante movimento del traffico in orbita attorno alla rotonda. Sopra al mare di piante.

 

Camminare, camminare. Non si può fare altro in questa città che cercare di coprire le distanze, unendo un punto all'altro con fili di passi e di pensieri, per scoprire poi solo alla fine quale disegno generale ne risulterà. Il maltempo sfoltisce i turisti, sgombra le strade, regala specchi di pozzanghere e un ritmo caparbio ai passi di chi non si lascia scoraggiare dai temporali. Le emozioni si addensano sotto la cupola dell'ombrello.

 

Scalpitano i cavalli di bronzo sopra la Porta di Brandeburgo. Nervosi e possenti, potrebbero portarsela via tra le nuvole, ora che non è più legata a niente. Né simbolo di trionfo del periodo imperiale, né elemento di divisione per i trent'anni in cui fu parte integrante del Muro.

 

Si inizia subito a fare i conti con le assenze di Berlino. Qui c'era questo, lì c'era quello. Ricordi dolorosi di un mondo svanito nella polvere delle macerie, sbriciolato dai bombardamenti, spazzato via dai colpi di coda feroci della storia, fatto a pezzi dalle decisioni dei potenti del mondo. Una città fantasma che trapela sotto quella reale, rendendo la visione multipla e ambigua, obbligando a una continua messa a fuoco su quanto si sta osservando. Come in un quadro cubista, si vede nello stesso tempo, oltre all'immagine presente, quella del passato e anche quella del futuro.

Sì, se Berlino fosse un dipinto, l'autore sarebbe Picasso.

 

Ci si sente piccoli camminando lungo Unter den Linden, che non sembra neanche un viale, ma una piazza per giganti. Solo i tigli non sono alti come ci si potrebbe aspettare. Il resto è spazio, grandezza e vastità. Il cuore monumentale di Berlino, con i suoi severi palazzi settecenteschi, i templi neoclassici dell'Isola dei Musei e la massiccia mole del Duomo, gronda solennità. Solennità e pioggia. Sgargianti e variopinti, i pullman turistici, in eterno movimento, scarabocchiano graffiti a colori acrilici su una visione da quadro di Canaletto.

 

La torre della televisione è un ago di bussola puntato verso il cielo. Così esagerata da sparire dentro l'ovatta sfioccata di una nuvoletta impigliata sulla sua punta. Così alta da diventare faro e stella polare per ogni disorientato turista sperduto nell'oceano berlinese. Così irreale da apparire come una presenza aliena alle spalle della trecentesca Marienkirche. Chiesa mirabile, che introduce alla bellezza antica del vicino Nikolaiviertel, minuscolo, inaspettato quartiere, attraccato come una zattera del tempo alla riva della Spree. Delicata tessera in oro vecchio nel complicato mosaico della città.

 

Da qui, correnti di persone sfociano nel mare dell' Alexanderplatz. Strana piazza fatta di vuoto e di gente, dove la folla forma vortici, mulinelli e maree nelle ore di punta. Ora, variopinte fiumane di ombrelli in movimento. Musica blues da un piccolo palco protetto da un telone gocciolante attira come una calamita i passanti. Qualcuno balla sotto la pioggia. Qualcuno corre per prendere un tram. Qualcuno si abbraccia. Odore di curry wurstel nell'aria.

 

Più avanti, gli spazi si dilatano ancora nella iperbolica via di fuga della Karl Marx Allée, tra due ali smisurate di palazzi in perfetto stile trionfale sovietico. L'Ostalgie, la nostalgia per l'Est, che ha messo radici nel cuore di alcuni berlinesi, trova conforto in una sosta ai tavolini consumati del Caffè Sybille tra vecchi cimeli dell'epoca. Colori sbiaditi, giornali dalle pagine ingiallite e un brivido leggero che corre lungo la schiena come la pioggia sulla vetrina.

 

Solo il futuro invece ha cittadinanza in Potsdamer Platz. Qui siamo già nella Berlino di domani. I vuoti lasciati dalle bombe sono stati riempiti da nuove forme. I traumi del passato sono stati curati con la sfida in vetro, acciaio e cemento di edifici progettati da architetti superstar. Leggero senso di estraniamento. Si cammina un po' smarriti, come figurine in un plastico.

 

La struttura bianca che copre il Sony Center è l'ombrello di un'enorme medusa, sotto la quale si fluttua come pesci, dimenticando le nuvole e la pioggia. Atmosfera da acquario. Aria color acquamarina. Si vaga da una parte all'altra con moto ondivago. Mega schermo con immagini ipnotiche. Agorà del futuro.

 

Anche in questo posto però affiorano frammenti di passato. Sfaccettature della Berlino cubista. Una perfetta sala barocca, la Kaisersaal, mostra stucchi, dorature e specchi, sigillata dentro pareti di cristallo. Stesso effetto inquietante della stanza al termine del viaggio nell'universo in 2001 Odissea nello spazio.

 

Fuori, geometrie schiaccianti, costruzioni colossali, spigoli come lame di coltello che fanno da spartiacque tra pareti d'ombra e facciate di cristallo chiaro dalla trasparenza di diamante. In questo scenario, davanti a un vero relitto di Muro, un finto poliziotto della vecchia Berlino Est stampa finti timbri sui veri passaporti dei turisti. "Check point Charlie....british visum and american...and french...." Litania di visti per accedere ai vari settori. Persone in coda, pazienti. Sembra tutto vero. Ma l'enorme cartellone di fronte, che pubblicizza un i pad, ristabilisce le misure del tempo e svela la finzione.

 

Se qui Berlino strizza l'occhio alla sua storia e prova il gusto di giocarci sopra, c'è un posto, però, poco più avanti, dove non si può più scherzare. Memoriale dell'Olocausto. Desolato campo di 20.000 metri quadri, seminato di 2711 parallelepipedi di cemento. Affiorano dal terreno, sempre più alti via via che si va verso il centro. Labirinto schiacciante e inesorabile in cui ci si smarrisce in un incubo pietrificato dove non esistono linee curve, tra blocchi grigi che la pioggia riga di lacrime. Come se non potesse esserci più un domani, si veste a lutto il cielo, coprendosi di un velo dello stesso colore.

 

Ma il domani è già qui e ha i colori della rinascita e della gioia di vivere. Nuovo giorno su Berlino. Sole caldo. E nuvolette bianche a forma di orsetto Knut. Agili biciclette sfrecciano leggere lungo le piste ciclabili. Campanelli stizziti invitano a sgombrare il campo ogni volta che, per sbaglio, si invade il loro territorio. Goffi stranieri, noi, bisognosi di imparare come si muove questa città. Schnell. Velocemente.

 

Lezione di dinamica all'Hauptbahnhof. Nodo di binari. Cuore di ragnatela. Cinque livelli di stazione, impilati uno sull'altro. Ordine e precisione sotto una maschera di caos apparente. Treni che arrivano e partono. Bianchi ICE superveloci dall'aspetto di anguilla. Convogli locali che aspirano e risputano studenti, famiglie, biciclette, cani.

 

Si sale al quinto piano a gettare di sotto sguardi, come sassi in un pozzo senza fine. Voragine turbinosa di folla, bagagli, neon, negozi, ristoranti, schermi luminosi saettanti di immagini e colori. Ascensori trasparenti salgono con leggerezza di bolle d'aria nell'acqua. Scorre irreale, come a rallentatore, una fiumana di scale mobili. Intreccio di flussi opposti, in moto lento e costante, dentro una frenesia da formicaio.

 

Rari e inaspettati ritagli di quiete dentro questo effervescente brulichio, misurano la profondità della solitudine. Piccole oasi irreali. Un uomo solo davanti a un binario, due innamorati che si baciano, qualcuno che si perde dentro un libro o un computer.

 

A poca distanza, severo, massiccio, il Reichstag si spalanca in un sorriso davanti al suo immenso prato. Niente giardini complicati e fastosi, nessuna retorica. Solo un semplice spazio verde. Dem deutschen volke c'è scritto sul frontone del cupo edificio, "Al popolo tedesco". E il popolo tedesco è lì, davanti alla massima istituzione del suo paese, a proprio agio come nel cortile di casa sua. A piedi scalzi nell'erba. A giocare a frisbee col cane. A prendere il sole su un vecchio plaid.

 

Come al Tiergarten. Un bosco targato Berlino parcheggiato in centro. Metropoli al contrario. Scoiattoli e pettirossi. Profumo d'erba. Pensi solo di attraversarlo e invece ti ritrovi catturato dalla sua trappola verde, sdraiato su un prato a guardare le nuvole. La Sprea, sinuosa, scorre al confine del parco e prende fiato come dopo una corsa. Ha appena attraversato la città del passato. Palazzi e monumenti si sono riflessi nel suo mobile specchio, ma Berlino non vi si è più riconosciuta. Troppa cenere, troppi fantasmi.

 

Tutto scorre. E cambia. Questo ci sussurra la piccola Sprea. Questa è la cura.

Anche il Muro ormai è solo una traccia che affiora a tratti per terra. Linea di sutura su un taglio di bisturi tra un est e un ovest che non si distinguono quasi più. Come uno scoglio emergente da un mondo sommerso, una sezione di Muro si snoda ancora lungo la Mühlenstrasse, prendendo il nome di East Side Gallery. Artisti di ogni paese hanno cercato di guarire l' orrenda ferita con il balsamo della loro arte. Buone vibrazioni di pace, fratellanza e libertà gridati per un chilometro e mezzo di murales. Il Muro c'è, ma non è più Muro. Ha cambiato la sua pelle di cemento e filo spinato con una colorata livrea da farfalla. La cicatrice è stata trasformata in un tatuaggio simbolico.

 

Il fiume, che fin qui ci ha accompagnato, scorre parallelo a quest'ultimo relitto di Muro. Lo sottolinea con un tratto di evidenziatore azzurro. Un ritaglio di sponda con sabbia e sdraie si finge spiaggia esotica a ritmo di reggae. Intanto i battelli turistici navigano lenti e si infilano nelle asole strette dell'Oberbaumbrücke, il ponte turrito in mattoni rossi che sembra uscito da un libro di fiabe russe.

 

Siamo già nel quartiere di Friedrichshain, dove l'estro e il talento sono di casa. Vollkornbrot e arte a colazione. Graffiti fiammeggianti e tranquilla realtà rionale.

Democratica street art che ama l'aria aperta, i passanti, i muri delle case. Energia creativa che vola a livello di marciapiede. Quando arriveranno i galleristi di grido e gli atelier di lusso, con gli arredi firmati, la corrente sarà già migrata in zone più alternative. Inafferrabile.

 

Ma per ora è qui. E qui c'è il Raw. Grande area di capannoni dismessi, occupata e abitata da quel genere di berlinese che non ama le riunioni di condominio, ma che sa trasformare una scorticata parete di mattoni in un'opera d'arte. Qui si riparavano treni. Ora è un posto strano, con un cuore da vecchia locomotiva che traina controcultura, socialità e arte. Colori e figure fantastiche tra la polvere e l'abbandono. Techno music come un mantra ripetuto.

Sensazione di trovarsi in una zona vagamente pericolosa, per poi scoprire che, nello spiazzo sterrato tra i ruderi, tutte le auto hanno il tagliando del parcheggio e distinti signori prendono il caffè sul prato davanti al piccolo bar, in attesa che i nipotini escano dalla scuola di skateboard lì accanto.

 

Poco lontano, oltre il raffinato gioco di cortili di Hackesche Höfe, oltre la cupola dorata della Neue Synagoge, il cupo palazzo occupato dalla comunità artistica Kunsthaus Tacheles cova estro esplosivo dentro un'oscura decadenza. Pittori e scultori underground lo hanno trasformato in un antro sciamanico di arte grezza.

 

Le strade portano lontano. Impossibile stare fermi in una città che si muove. Impossibile legarsi a un'immagine in una città che cambia. L'omino degli attraversamenti pedonali, col suo buffo cappello, si accende di luce verde e dà il lasciapassare in territori urbani sconosciuti.

 

Sconosciuti e a volte esotici, come il quartiere cosmopolita di Kreuzberg. Caffè turco al mercato turco. Stesso colore caldo negli occhi dei bambini. Pezzetto di Istanbul sotto il cielo di Berlino. Döner kebab e lahmacun. Piccolo medioriente prussiano in cui immergersi tra cascate di frutta e di verdura.

 

Il sole sta calando. Berlino inizia già a prepararsi per la sua sera azzurra e scintillante.

I turisti affollano i tavolini all'aperto. I giovani berlinesi invece sembrano aver eletto i prati della città a luogo di incontro privilegiato e fioriscono qua e là in coppie, gruppi e circoletti, come aiuole colorate nel verde.

 

Al termine della giornata stanchezza e felicità si mescolano nello stesso modo in cui lo smog si impasta col colore del tramonto. Fusione perfetta che genera insolite sfumature. Sciame veloce di biciclette. Campanelli. Ma, stavolta, nessuna invasione di campo da parte nostra: suonano solo per allegria.

 

 

 

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