Saudade e salsedine

Seguendo l'orlo del Portogallo

racconto vincitore del concorso Lo sguardo del viaggiatore e il racconto dei luoghi  promosso dall'Associazione culturale Go slow social club

Partimmo in un grigio giorno di gennaio, per scoprire pochi giorni dopo, che la primavera già danzava sulle colline e le coste del sud del Portogallo.

Un itinerario elementare. Niente giri tortuosi, niente deviazioni, solo un lento discendere seguendo fedelmente la costa. Una specie di navigazione terrestre lungo l’Atlantico.

Si decise subito di evitare Lisbona. Boccone troppo grosso per un viaggio che cercava solo un microcosmo costiero di scogliere selvagge, spiagge solitarie, fari isolati e piccoli porti, nella bellezza e nel silenzio dell’inverno.

Peniche fu il punto di partenza. Il vecchio paese su un promontorio, presso l’austera fortezza del XVI sec., subito ci incantò con la sua livrea da pappagallo, sgargiante di colori. A pochi chilometri, il faro bianco di Cabo Carvoeiro, i suoi scogli scolpiti dal mare e il piccolo santuario di Nossa Senhora dos Remedios, luccicante all’interno di azulejos, come una madreperla.

Ericeira aveva un’anima di gabbiano. Se ne stava appollaiata sopra il suo movimentato porto peschereccio. I vecchi del paese, faccia abbronzata e basco calato sugli occhi, amavano guardare dall’alto della massicciata le barche che tornavano dalla pesca e il sole che tramontava.

A Cabo da Roca toccammo l’estremità più occidentale d’Europa., insieme a molti turisti giapponesi provenienti dalla vicina Lisbona. Ma uno spettacolo più originale ci attendeva a Praia do Guincho, dove la spuma dell’oceano burrascoso era simile a panna montata. Un’enorme cagliata ribollente, dentro la quale potevi entrare senza neanche bagnarti.


Continuammo a scendere verso sud. Il camper, come una piccola barca, ci permetteva di fermarci presso spiagge e scogliere solitarie, in modo da essere sempre accompagnati dal suono delle onde. Di giorno respiravamo salsedine e solitudine. Di notte ci cullava il respiro del mare. E’ così che ci innamorammo della bellezza dell’oceano e del fascino segreto del Portogallo.

Una terra rannicchiata sull'orlo di un continente, i confini della vecchia Europa alle spalle e l’immensità dell’Atlantico di fronte. Non poteva far altro che restare ammaliata da quell'orizzonte senza fine, da quella luce di occidente, da quei lenti pomeriggi bianco azzurri, da quei tramonti densi di nuvole inzuppate di colori.

Una terra stregata dalle onde. Come noi. Potevamo restare ore a guardarle, dall'alto di scogliere irte e scure, sopra spiagge deserte accovacciate tra le rocce.

E all'improvviso capivamo l'espressione indecifrabile e chiusa dei portoghesi, abituati a guardare sempre lontano, contro vento, e anche lo sguardo bruciante di febbre dei surfisti, persi d’amore dietro quelle onde dal canto di sirena, di cui speravano di cogliere l'anima nel nido di una camera verde.


A Cabo Espichel incontrammo la vertigine dell’oceano schiumante sotto falesie che si perdevano all’infinito tra cortine di nebbia. Solo una landa sperduta, un faro e un antico santuario. Un posto fuori dal mondo, solenne e metafisico. Piccolo regno di tempeste, flagellato da ogni intemperia.

A Sesimbra invece scoprimmo un porto riparato. Riposammo gli occhi sui colori  delle piccole barche e leggemmo uno ad uno tutti i loro nomi, ingenui e poetici.

Miniature di case a Porto Covo. Poi giù, lungo la costa alentejana, fino a Vila Nova de Milfontes e i suoi arenili di sabbia fine, alla foce del rio Mira. Zambujera do Mar, bianca sotto l’ombra di grandi araucarie, con la sua struggente piazzetta affacciata sopra lo spettacolo di spiagge e rocce schiaffeggiate dalle onde.

Odeceixe, col vecchio mulino sulla sua collina di eucalipti. Le bianche case di Aljezur, i panorami aerei di Arrifana e le indimenticabili, immense spiagge di Carrapateira, tra scogliere dirupate.

Presto imparammo che il vento era il respiro di questa terra. Faceva parte del paesaggio. Quando soffiava da terra, le onde sbuffavano imbizzarrite. Dentro quel fumo d'acqua, a volte, scoprivamo l'arcobaleno.

E l’intera tribù dei venti noi la trovammo che ballava scatenata a Cabo de Sao Vicente. Un luogo dall’aura sacra, dove la terra termina nell’oceano con un grido di pietra. Lo sguardo qui si perde su una visione da capogiro di falesie, ai cui piedi le ondate  si infrangono con tonfi sordi e rimbombanti.

A Ponta de Sagres la grande fortezza dove, nel XV sec, Enrico il Navigatore  radunò astronomi, navigatori e cartografi per studiare il misterioso oceano che incantava i suoi occhi. Da questa scuola si sviluppò  l’uso di nuovi strumenti di navigazione e iniziò l’epoca delle grandi spedizioni di scoperta portoghesi.

Nel sole e nel vento lasciammo le emozioni epiche di questa finis terrae ed entrammo nella dimensione più intima e appartata di Vila do Bispo. I tipici camini dell’Algarve disegnavano nell’azzurro del cielo merletti che sembravano creati dalle fate lusitane. 

Vicoli sonnolenti raccoglievano passi di gatti, silenzi e ombre nere di case bianchissime. 

Dopo Cabo de Sao Vicente , giro di boa. Ora si viaggiava da ovest verso est.

Salema, nascosta dietro i nuovi mostri di cemento, conservava la bellezza vissuta e un po’ acciaccata di un piccolo villaggio di pescatori. Ruvido, ma anche delicato. Capace di dettagli come “A azulinha” e “A verdinha” scritto con lettere di maiolica su una casina celeste e su una verde.  

 Ponta da Piedade fu per noi un giardino magico e deserto, di scogliere e faraglioni. Camminammo per ore su prati coperti da un trifoglio fiorito di giallo fosforescente, davanti al ventaglio aperto dell’oceano.

Nel vecchio quartiere di Lagos, capitale dell’Algarve, base delle spedizioni africane ai tempi di Enrico il Navigatore, sentimmo il fascino polveroso di una città che conobbe gloria e ricchezza. L’ antico Mercato degli schiavi ci diede un brivido di orrore, stridente con la quieta bellezza della piazza.

Polvere e oro si mischiavano nei ricordi e nell'aria che sapeva di sale. Stridevano i gabbiani, come gessetti sulla lavagna del cielo.  

L’Algarve ci riservava ancora meraviglie. A fine gennaio i prati erano verdi e i mandorli in fiore. Dalle viuzze arrampicate di Ferragudo guardammo il fiume Alvor sfociare nell’oceano e la muraglia aliena dei palazzi di Portimao di fronte, sull’altra sponda.

Giorni di sole primaverile si alternavano a giorni di tempesta.  In una sera di bufera e pioggia battente il santuario di Nossa Senhora da Rocha ci sembrò ancora più piccolo e temerario sopra le scogliere squassate dall’oceano. Nel vento invocava misericordia per i marinai, opponendo alla furia del cielo e delle acque la fiamma tremolante di esili candeline.

Infine la saudade di Faro, sulla sua irreale laguna, malinconica e sognante come un fado senza tempo. Olaho, quasi una kasbah africana di vicoli claustrofobici in cui è bello perdersi anche in un giorno di pioggia. E per ultima Tavira, bianca, decadente e seducente, che contemplava la sua immagine riflessa sul fiume Gilao.

 

Tutti i paesi che incontrammo lungo la nostra linea a filo d’acqua, avevano un’anima marina. Quasi per bilanciare l’onnipresente, mobile e ondulata visione del mare, avevano case dove la geometria ricomponeva il mondo in linee ferme e si faceva anche ornamento.

In alcuni il bianco era una pagina vuota su cui dipingere  l'oro del sole o il blu del mare, in larghe fasce lungo i bordi delle pareti. Altri si perdevano in uno sconcertante delirio di maioliche e piastrelle colorate che invadevano ogni superficie disponibile con fantasie da caleidoscopio impazzito.

Altri ancora, quelli che preferivamo in assoluto, avevano case colorate dalle nuvole di pioggia venute da oltremare, e dal sale che il vento soffiava dall'oceano. Pareti su cui il tempo, come un writer temerario, aveva disegnato storie di aria e acqua. Intonaci scoppati da cui affioravano vecchie tinte, colori fradici di umidità, fioriti come muschio grasso sulla calce sgretolata.

In ogni paese incontrato da Peniche a Tavira, camminando per vicoli dai nomi pieni di grazia, rua do vento, rua das ondas, rua da saudade, ci lasciavamo guidare dal richiamo di un colore intravisto a un incrocio, da un gatto che correva a nascondersi tra i malandati vasi di un giardinetto, dal profumo di bucato che si mischiava a quello delle sardine arrostite fuori della porta di casa.

Ma spesso era ancora una volta l'oceano, intravisto baluginare in fondo a una stradina, ad attirare i nostri passi, come una calamita. Così, fuori dall'ombra chiusa delle viuzze serrate tra le case, all'improvviso l'orizzonte spalancato, l'abbaglio di una luce senza confine, la vertigine di una terra di ponente.

 

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