Castelo de Vide, Alentejo profondo

 

Le lenzuola stese ad asciugare si gonfiano nel vento. Vento che sa di temporale in arrivo e di terre umide, dirupate e profumate di macchia. Come bandiere e drappi araldici si involano ad ogni folata, si attorcono e poi si ridistendono, calando sipari multipli che nascondono e svelano una scenografia di viuzze strette e contorte.

 

Bucato appeso ai fili che sbatte nell’aria con rumore di vela e un belare lontano. Unici segni di vita in questo pomeriggio tempestoso a Castelo de Vide. Siamo a un passo dal confine spagnolo. Qui i paesi sono avamposti di frontiera. Amano i cocuzzoli impervi, gli spuntoni rocciosi. Si aggrappano alle alture più inaccessibili, come nidi di grifone, per rispondere a un antico bisogno di difendersi e sorvegliare il territorio.

 

Oggi li troviamo suggestivi. Ma, quando furono costruiti, dovevano semplicemente essere fatti in quel modo. Obbedivano a un’esigenza. Svolgevano una funzione. Forse è per questo che la bellezza di questo paese è così asciutta, essenziale, interiore.

 

Dentro il respiro lento dell’Alentejo, la terra “oltre il Tago”, il silenzio è solido. E’ il primo strato dell’atmosfera. Si respira. Più lontano, la sua solitaria, desolata bellezza  si indorerà di campi di grano e vestirà un mantello trapuntato di infinite sugherete.

 

Ma qui, a Castelo de Vide, l’Alentejo ha un aspetto da presepe, con i rilievi fatti di cartapesta  accartocciata e muschio. Le nuvolette grigio argento degli ulivi punteggiano le vallate. Selvatiche colline precipitano in forre e barranchi. Rocce e pietraie si alternano a distese di vegetazione verde cupo e acque preziose e abbondanti vengono onorate con fontane che sembrano monumenti.

 

Castelo de Vide è un grappolo bianco su una collina. Partorito da un castello che sta in cima e benedetto da una grande chiesa nella parte bassa. Un paese disegnato a matita dalla storia e dipinto a colori dall’ambiente che lo ha plasmato. Le case hanno pareti pitturate a calce con bordi spesso giallo ocra, a volte blu o rosso cupo. Colore puro per sottolineare ed evidenziare. Nastro di gala che impacchetta scatole candide. Geometrie colorate, come in un quadro di Mondrian.

 

Le stradine sono simili a ruscelli che scendono giù dalla rocca, diventando più grandi, man mano che ricevono viuzze affluenti. Hanno un letto lucido di ciottoli di fiume levigati, corsi tortuosi in alto e più rettilinei in basso. Sfociano nel lago di quiete della piazza principale, dove gli anziani, basco calato in testa e il silenzio cucito addosso, rimettono l’orologio con le campane della chiesa.

 

In alto la natura rocciosa del posto prende il sopravvento. Se, arrivando, il poggio poteva sembrare abbastanza dolce, salendo si scopre il versante aspro e scosceso sul quale ci si affaccia impressionati. Il castello del XII secolo è massiccio e compatto come la roccia su cui è stato eretto. Bastioni possenti si allargano a protezione del nucleo medioevale.

 

Le case si fanno via via più piccole ed essenziali. Non sono più, come in basso, mattoni e calce, ma solo pietra su pietra. Tutto è grigio, color sasso. Tutto è fatto della stessa materia.  Solo qualche altarino votivo addolcisce il rigore dei muri con la nota azzurra di un azulejo screpolato, o di un vasetto di fiori strapazzato dal vento.

 

A nord, sotto le porte del castello, l’antico quartiere ebraico, la Judiaria, accolse nel 1492 gli ebrei cacciati dalla Spagna. Nelle logge un tempo si svolgevano animati commerci. Portali gotici con simboli scolpiti nel granito, una volta, facevano da ingresso a case piene di vita. La Sinagoga accoglieva i fedeli per i riti religiosi. Ora solo il vento bussa alle porte, sbatte le persiane e mormora parole ebraiche.

 

La pioggia arriva e lucida le pietre. Porta odore di terra e colori da medioevo che ben si addicono a questo castello scuro dal cuore di roccia e acciaio di spada. Aperture nelle spesse mura ritagliano il paesaggio in riquadri da guardare come fotografie. In uno le colline boscose, in uno la campagna disabitata, in un altro il paese come un unico quadrato bianco, quadrettato a sua volta dalla scacchettatura dei tetti di tegole rossicce.

 

Scendiamo fino alla Fonte da Vila, monumentale fontana lavatoio del XV secolo.   Incontriamo piccole chiese, assorte in una grazia innocente che benedice ogni passante.   Ci lasciamo condurre da stradine capricciose che si infilano tra le case con guizzo da folletti, emettendo risatelle dispettose ogni volta che ci riportano in un punto in cui eravamo già passati.

 

Ogni pietra ci ha raccontato una storia, ci ha sussurrato un ricordo, ci ha parlato di un paese vivo e tollerante, capace di incrociare due culture come l’ordito e la trama di un prezioso tessuto. Oggi appare delicato nella sua inconsapevole bellezza e fragile sotto le mura di un castello che  non potrà difenderlo dall’abbandono.

  

La sera scende e l’Alentejo richiude il suo scrigno di luce. Domani ci mostrerà altri villaggi, colline e pianure dove l’uomo, per secoli ha seminato grano e sangue, lotte e fatiche. Come scrive José Saramago in "Una terra chiamata Alentejo", la cosa più abbondante sulla terra è il paesaggio. La sua solitudine splenderà, immobile, sotto un cielo indifferente. Bianco e blu, come un azulejo.

 

 

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