Cabo de Gata - Un giorno a El Playazo

 

I due ragazzi avevano dormito nella station wagon, poco lontano dal nostro camper, sulla spiaggia deserta del Playazo.

Mentre noi, con i nostri zaini fotografici in spalla, ci incamminavamo nel sole sfolgorante di quel caldo mattino di febbraio, loro si erano appena svegliati. Lei stava preparando la colazione su un fornelletto da campeggio e lui riponeva le coperte nel bagagliaio. Un cenno di saluto, nell’aria profumata di caffè, con la sottintesa complicità di chi ha scelto e abitato lo stesso paradiso, anche solo per poche ore.

Poco dopo ci rincontrammo lungo la riva mentre cercavamo di catturare coi nostri scatti quei ricami fugaci di schiuma che venivano a disfarsi languidamente ai nostri piedi e fu inevitabile parlare.

Venivano da Cadice, la città che ci aveva stupito con la sua luce, le sue aperture sul mare, la sua aria di un’altrove che non riuscivi a definire e stavano trascorrendo una breve vacanza qui nel Parco di Cabo de Gata, nella pace assoluta che il mite inverno andaluso riesce a regalare.

Il ragazzo, parlando uno spagnolo il cui suono, come sempre, ci incantava con la sua fluida e solenne musicalità, ci chiese se quella notte avevamo visto la luna. “ muy  bonita” la definì  “y preciosa”.

Sì, l’avevamo vista quella luna bonita e preziosa, che scioglieva nel mare il suo riflesso d’oro pallido. Nonostante fossimo stanchi per il tanto sole e il tanto camminare del giorno, eravamo usciti fuori a guardare la notte calda e misteriosa. Un riverbero d’argento ricopriva la spiaggia di una patina fosforescente. Una luna metallica e fatale. Una luna da Eurialo e Niso.

Ma quella parola, “preciosa”, fu una chiave. Era proprio vero, la bellezza è preziosa e tutto Cabo de Gata era prezioso con la sua natura selvaggia e desertica, le sue dune, le sue spiagge, le scogliere, gli arrotondati cocuzzoli vulcanici, le distese di agavi e palme nane. Un ecosistema tanto bello quanto fragile e dunque prezioso. Fu una bella scoperta quella parola. In fondo, eravamo qui in cerca di chiavi.

L’Andalusia è difficile da capire, si offre a una lettura troppo facile, piena di stereotipi e clichè. Chiavi che non aprono nessuna porta, inutilizzabili. Piccoli particolari possono spalancare nuove vedute e questa parola era una chiave buona che ci faceva capire la natura profonda di questo luogo.

Al Playazo eravamo arrivati ieri per caso. Avevamo visto due camper uscire fuori da uno sterrato polveroso che non esitammo un attimo ad imboccare. Cabo de Gata ci aveva già conquistato con Playa de los Genoveses e di Monsul, le saline di Acosta e paesini sperduti come La Isleta del Moro, ma qui ci rapì veramente il cuore. Sarà stata anche la luna, chissà!

Salutati i nostri amici, percorremmo il lungo arco della spiaggia fino a un antico forte restaurato. Un sentiero si inerpicava sulle alture brulle. Scogliere a perdita d’occhio sul mare blu profondo e alle spalle una terra disabitata ed esotica, quasi africana. Sull’acqua rocce lisce come sculture levigate. Strane formazioni di dune pietrificate, come quelle che avevamo visto il giorno prima a Los Escullos. Merletti di sabbia cristallizzati. Incantesimi e stregonerie che credevamo possibili solo in certe fiabe gotiche.

Il tratturo che si inoltrava verso l’entroterra si insinuava nella strana foresta formata da quell’unico ramo stecchito che ogni agave puntava verso il cielo prima di morire. Strano modo di fiorire. Più avanti un gruppo di alte palme formava una specie di oasi a protezione di un’antica noria per l’irrigazione. Sembrava ancora di sentire il chiocciolio dell’acqua e il raglio dell’asinello paziente che un tempo faceva girare il cigolante meccanismo di legno. Ora solo il belare di un gregge lontano e il gracchiare di qualche corvo.

Poi il silenzio fu spezzato da un suono di clacson dallo sterrato lontano. La station wagon si allontanava alzando nuvole di polvere. Salutammo i ragazzi con la mano, ringraziandoli mentalmente.

Ora il Playazo era tutto per noi, bonito y precioso. 

 

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