Cabo de Gata, dove l'Andalusia sogna l'Africa

 

Lo sterrato è stretto e sconnesso. Nuvole bianche sono cadute da un cielo blu cobalto dentro le pozzanghere di questa stradella rossa che, nel cuore del Parco Naturale di Cabo de Gata- Nijar, da San Josè porta a Playa de los Genoveses. Quattro lenti, pigri chilometri che chiudono alle spalle, come quattro barriere, il normale mondo abitato e spalancano le porte su una terra selvatica, sperduta ai confini del mondo. 

 

Siamo lontani dal biancore troppo perfetto delle nuove villette da vacanza, dalle strade asfaltate e dall’irreale mare di plastica delle serre che tappezzano la fertile pianura di Almeria.

 

Forza e purezza in questa landa desertica e illusione di essere altrove. Un altrove esotico, che disorienta. Un’ Europa africana. Stessa sensazione di spaesamento di Ulisse allo sbarco su una costa sconosciuta. Sentirsi davanti a un mondo misterioso che non somiglia a nulla di noto. Un gioco di prestigio che al Mediterraneo riesce molto bene.

 

Le ruote del nostro camper rompono gli specchi e  intorbidano le immagini riflesse, mentre il vento già asciuga i resti del temporale con un soffio irrequieto e folle che sa di primavera e di cavalli in corsa.

 

In cabina c’è un forte profumo di timo selvatico. Il sole dal vetro ne estrae l’essenza, speziata e intensa. Ne ho raccolto un mazzetto ieri, sulle distese aride e pietrose dalle parti di Cala del Plomo e ora finisce di seccarsi sul cruscotto.

 

Gente del luogo con auto e furgoni caricava interi sacchi e balle di questo cespuglietto grigio verde dai delicati fiorellini lilla che ricopriva il terreno di tenaci e robusti cuscinetti. L’aria era completamente pervasa dalla sua fragranza. Terre disabitate, pietre calcinate dal sole e brezza marina fusi in un’essenza sottile e penetrante. Non lo sapevamo ancora, ma avevamo raccolto il ricordo futuro di Cabo de Gata.

 

Intanto, sobbalzando e zigzagando, arriviamo a un grande spiazzo di terra battuta. Playa de los Genoveses è davanti a noi. Un luminoso arco di sabbia tra due promontori. Una curva di spiaggia deserta, in cui il mare si annida e si accoccola con dolcezza, stanco della furia con cui tutt’attorno si schianta su scogli e falesie.

 

Qui la terra aspra e scura diventa morbida e pallida. Qui si scioglie il furore delle acque marine con un dono di schiuma e di conchiglie.  Il vento soffia contro le onde. La distesa verde blu profondo del mare si increspa di sbuffi bianchi. Ribolle di energia libera.

 

Dall’alto di una piattaforma rocciosa, che non è altro che sabbia solidificata, si ha il dono di 360 gradi di puro mondo incontaminato. Tutto luccica dello splendore vivo degli elementi. Acqua, terra, luce e aria. Ogni cosa appare rilucente per pura gioia di esistere.

 

Alle spalle della spiaggia, brulle distese colonizzate da agavi, palme nane e cespugli dai rami spinosi serrati in impenetrabili reticoli poliedrici. Gli alti steli delle infiorescenze delle agavi disegnano un fitto tratteggio. Una foresta di pali tra i quali si cammina a fatica. Ogni agave che fiorisce, subito dopo, muore e altre ne nascono, con morbide foglie di un lucente verde brillante, destinate a diventare col tempo coriacee e opache.

 

Più oltre, campi di fiori gialli e alture desertiche a perdita d’occhio. Antica terra vulcanica. Cime arrotondate e resti di crateri. Natura lavica che si riaccende ad ogni tramonto nel colore rosso bruno della terra. Un ritaglio di Africa arenato sulle coste di Andalusia.

 

All’estremità opposta della Playa, vecchi eucalipti, bruciacchiati dalla salsedine, offrono riparo dal sole. Una tana intima e segreta dalla quale restare a guardare il mare, seduti sulla sabbia, sotto cortine di rami fruscianti.

 

Ancora qualche chilometro di sterrato verso sud ovest e siamo a Playa Monsul. Intima e appartata, ha la grazia di un incavo di conchiglia. Grossi massi di origine vulcanica la delimitano e un grande scoglio nel mezzo obbliga il mare ad arrivare gentile e delicato sulla riva.

 

Ci arrampichiamo a fatica in cima a un’altura. Il vento quasi non ci fa reggere in piedi. Acquattati in alto, tra le pietre e il rosmarino selvatico, scopriamo una turbinosa fuga di scogliere. Nere sagome di ripidi promontori e fumo d’acqua che si alza dai cavalloni imbizzarriti, come vapore da  groppe di animali sudati e schiumanti.

 

Sulla spiaggia il vento alza la sabbia. Serpentelli indemoniati si scatenano in una corsa folle verso il mare, andando a morire nell’acqua. Una danza frenetica che ci investe e ci ostacola, come se stessimo attraversando il territorio proibito di un incantesimo.

 

Allontanandoci dal mare, ci addentriamo su un terreno coperto da una vegetazione forte e caparbia che sfida la salsedine e la scarsità di piogge. Il vento spazzola l'erba folta e lunga, che brilla elettrizzata, come la criniera di un cavallo strigliato.

 

A piedi raggiungiamo l’Ensenada de la Media Luna. Una piccola insenatura segreta e lontana. E ancora una prepotente sensazione di libertà spingerà i nostri passi più avanti, ci farà salire fino a Punta Negra, dove un’antica torre di vedetta araba sarà il nostro punto di riferimento e la nostra meta.

 

Per ricompensa, una vertigine di scogliere mozzafiato e i voli acrobatici dei gabbiani. Il  faro di Cabo de Gata  giù in basso, scortato dagli scogli guardiani el Dedo e Las Sirenas, si protende dal suo sperone roccioso sul dondolio eterno ed abbagliante delle onde. Pietra miliare di questa terra selvaggia. Compasso di luce nella notte mediterranea.

 

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