Avila. La fortezza mistica

Due righe immaginarie sulla cartina della Spagna. Una da Bilbao a Huelva, l'altra da La Coruna a Murcia. Due linee che si intersecano. Una croce. Avila è al centro. E le croci si addicono ad Avila.

Lontana da qualsiasi mare e da qualsiasi mitezza. Estrema nel clima e nel carattere. Chiusa, come un'isola in un oceano di terra. Sola, a 1131 metri di altezza, in quella specie di strano deserto d'alta quota che è la Meseta castigliana. Annidata nel mezzo della penisola iberica come un piccolo cuore di pietra granitica, un nocciolo duro e forte per proteggere un seme vigoroso.

La sua è da subito una storia di lotta. Un continuo vincere e perdere, a seconda da che parte si guardi. I primi a essere sconfitti furono i Vetoni, originaria popolazione celtica del luogo. Dovettero cedere il posto ai Romani invasori, che vi si insediarono con un accampamento militare. Nel primo secolo dopo Cristo era già una città cristiana, tormentata da sanguinose persecuzioni contro il movimento eretico dei priscillani. Poi Alani e Visigoti la travolsero come un vento nordico di tempesta. In seguito passò sotto il dominio arabo, vivendo anni turbolenti, martoriato oggetto del contendere tra musulmani e cristiani in continua incursione.

Ogni volta Avila rinasceva dalle sue rovine, spegneva i fuochi degli incendi, ritirava su i muri e si aggiustava la corazza, pronta a nuovi combattimenti. La Riconquista definitiva nel sec. XI la riconsegnò alla Chiesa, ma non alla pace. Restò a lungo teatro di scontri furibondi tra la corona di Aragona e quella di Castiglia, eterni duellanti che se la contendevano come due cani su un osso. Braccio armato della potenza ecclesiastica, negli anni fiammeggianti delle Crociate, partoriva eserciti. Come pani da un forno, uscivano dalle sue porte file di soldati, pronti ad attraversare il mondo, verso un fosco destino in Terra Santa.

Dunque una piccola città rocciosa e temeraria, temprata da mille battaglie. Terreno conteso, difeso, perduto e ripreso. Ondate incalzanti della storia, contro le quali Avila oppose la sua indole guerriera e lo scudo spesso della sua resistenza. Guerra e religione, combattimento e preghiera, sangue e spirito. Due poli opposti tendenti alla fusione, generatori di un 'energia violenta, che la plasmarono asciutta e tesa, essenziale e bruciante. Croce ed elsa di spada.

Quando arrivò il sec XVI, i musulmani erano già un ricordo lontano. Ebrei, Moriscos (mori convertiti al cristianesimo) e Mozarabos (spagnoli cristiani arabizzati) ormai da tempo cacciati e dispersi ai quattro venti, in nome di una folle idea di epurazione. Tutto era pronto per l'epoca d'oro. Avila, uscita da un fosco Medioevo, assaporava un sobrio Rinascimento che addolciva la vita. Fiorivano opere e palazzi. La Chiesa ricca e potente aveva un nuovo grande nemico, questa volta in terra di Germania. Giovanni della Croce scriveva i suoi cantici e i suoi trattati di teologia. Una monaca, Teresa di Gesù, nel suo convento, scoperchiava il cielo col cuore trafitto dall'estasi, sperimentando inquietanti vortici di misticismo. Sarebbe diventata Santa Teresa d'Avila. Riformatrice dell'Ordine delle carmelitane. Dottore della Chiesa. Arma essa stessa della Controriforma cattolica.

Poi la stella di Avila tramontò. Non più Avila de los Caballeros. Non più nido per Infanti reali. Un lento declino stese polvere sulle sue pietre e sugli ori. Aristocrazia e ricchezza migrarono a Toledo, lasciando dietro di sé abbandono e silenzio.

La piccola città cadde nell'oblio tra i mulinelli di polvere della Meseta. Un minuscolo puntaspilli di torri e campanili dentro uno spazio smisurato, antico campo di battaglia senza fine. Bandiere sfilacciate. Stendardi a brandelli. Grida e rumore di sciabole come echi di fantasmi. Solo corvi, fruscio d'erba, sibilare di vento. Solo ossa calcinate di animali e di soldati che tornavano polvere. Solo giorni e notti scanditi da suoni di campane e un vivere lento nel chiuso di case o di celle, dentro palazzi e conventi sigillati in un giro di mura perfetto. All'interno, l'intero universo era diviso in un dentro e un fuori. All'esterno, la solitudine di un mondo, separato da un orizzonte piatto, in un sopra e in un sotto. Nessuna sfumatura. Nessun morbido degradare. Sotto, la distesa sterminata dell'altopiano, montagna travestita da pianura. Bruciante e arida nelle estati feroci. Deserto bianco negli inverni taglienti come lame. Sopra, un cielo denso e pesante. Aria solida. Diluvio di luce implacabile e abbagliante, che acuiva la vista dei guerrieri che scrutavano la piana e le visioni dei santi e degli eremiti.

Las murallas, costruite tra il 1000 e il 1100 con materiale di origine romana, a difesa contro i nemici, ora servivano a proteggersi da un estremo senso di vuoto. Assedio fatale. Bisogno di pareti, di confini, di ripari e barriere che tenessero lontano quella vertigine di infinito e di divino che aleggiava misteriosa là fuori, sopra la Meseta. Solo una santa come Teresa poteva esplorarla e abbandonarsi ad essa, senza esserne schiacciata.

 

Oggi Avila è ancora così. Spirituale e metafisica. Proiezione di quel Castello interiore di cui scrisse la sua Santa.

Una città castello nella terra dei castelli, la Castiglia. Cristallizzata nel suo medioevo ardente e nel suo Rinascimento luminoso. Ciudad de cantos y de santos, città di pietre e di santi. Elegante e altera. Fiera. Solitaria.

Due chilometri e mezzo di formidabili mura merlate ininterrotte, scandite da 88 bastioni e 8 porte. Rettangolo blindato che racchiude un fazzoletto di antiche dimore, palazzi, chiese, giardini. Una cattedrale fortezza, con l'abside inserita nella cinta fortificata. Architetture romaniche e gotiche. Retabli preziosi. Silenzi antichi.

Fuori, oltre le mura, il respiro forte della Meseta, nonostante non sia più cosi deserta come un tempo, è rimasto lo stesso. E anche il paesaggio. Monotono, spoglio, netto, ispiratore. Un ambiente rude e severo, di grandi spazi e orizzonti lontani, fatto per la lotta e la contemplazione. Capace di forgiare eroi brutali, razziatori, guerrieri, santi, mistici e poeti.

Il vento che rotola giù dalle creste della Sierra de Gredes e dalla Sierra de Guadarrama, mena fendenti di spada e rende ogni cosa affilata e splendente: la luce, le ombre, gli spigoli delle case e le preghiere. Soffia, come da sempre, sui tetti di Avila, infilandosi nei camini, facendo sbattere vecchi portoni borchiati e vacillare i lumini nelle cappelle. Sussurra per le strade, come un eco di litanie lontane e di canti religiosi.

Passano in diagonale, nel riquadro di luce violenta delle piazze, ombre scure in forma di croce. Alzi gli occhi in cerca di angeli e scopri cicogne in volo, stagliate contro il blu assoluto del cielo. Scendono in cerca di cibo tra le canne e i sassi del fiume Adaja e poi tornano ai grandi nidi sopra i campanili e nella foresta di pinnacoli della cattedrale, seminando benedizioni al loro passaggio.

Nel chiuso dei conventi, dietro le grate spesse, bianche mani di suore silenziose accendono candele, ricamano tovaglie d'altare, preparano ostie, impastano dolcetti di mandorle e miele. Nell'aria, profumo di rose e di cera, di incenso e di farina.

Il sole è affondato come un rosso d'uovo in un cielo di crema e zafferano.

La sera azzurra stende il suo manto di Madonna. Da Los Cuatro Postes, una croce di pietra tra quattro pilastri sull'altura di fronte, appena di là dal fiume, la visione è perfetta.

Chiusa nel suo guscio di pietra, carbone incandescente nell'ombra che avanza, la città si accende di fioche luci rossastre. Sembrano fuochi di battaglie, o fiaccole e ceri di lente processioni. Ancora una volta guerra e religione, che si fondono e si confondono in un identico destino di cenere. Nonostante invasioni e conquiste, Avila splende inviolata. Monaca e guerriera. Claustrum e castrum. Chiostro e fortezza. Per sempre.

 

 

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